ABBIAMO AMATO TROPPO LE STELLINE PER AVER PAURA DELLA NOTTE

Giuliana Campestrini – coordinatrice della Comunità Stelline di Milano – ci regala un’antologia di sentimenti e stati d’animo che ben descrivono l’intrecciarsi di emozioni, pensieri e vissuti che animano il palcoscenico della Comunità dove l’interprete principale è il Femminile nella sua affascinante versione adolescenziale.

Una narrazione che si propone come occasione di crescita e di riflessione per chiunque abbia a cuore il proprio e l’altrui benessere.

Scampoli di storia

L’orfanotrofio femminile Le Stelline, nasce come fondazione nel 1753 e prende il nome dalla parrocchia ‘ la stella ‘che raccoglierà il primo gruppo di bambine, da qui l’attribuzione del soprannome Stelline dato alle orfane; in seguito le Stelline accolsero anche donne abbandonate e maltrattate dai mariti.

A partire dagli anni Sessanta i cambiamenti socio culturali e legislativi portarono all’evoluzione degli Istituti ed è in questo contesto che nasceranno le Comunità.

 La prima Comunità Martinitt si apre nel 1978 con lo scopo di superare le limitazioni tipiche di una grossa struttura e di basare la convivenza su più stretti rapporti interpersonali, integrandosi con il territorio, favorendo il contatto con la famiglia di origine e la realtà sociale di provenienza.

La Comunità femminile dove noi lavoriamo è aperta 365 giorni all’anno, festività comprese, e ospita ragazze dai 13 anni ai diciott’anni fino a un massimo di 21 anni.

Vengono ammesse su richiesta del servizio sociale, solitamente possiedono un Decreto del Tribunale dei Minorenni che sancisce l’affido al Comune di Milano perché collochi la ragazza in idonea struttura.

Le motivazioni di una collocazione in comunità vanno dal maltrattamento in famiglia, all’abuso, vittime di tratta, minori non accompagnate e soprattutto per inadeguatezza della famiglie, il più delle volte disfunzionali.

Le ragazze ospiti sono 10. Il personale, a pieno regime, un coordinatore e sette educatrici/ori.

 

Bersagli e paradossi

Ogni ragazza entra in comunità con una storia personale difficile e spesso dolorosa, per trovare un luogo tranquillo dove poter stare bene e costruire le basi per il proprio futuro.

 Il progetto educativo individuale di ogni ragazza prevede obiettivi finali di autonomia o ritorno in famiglia; in tutti e due i casi, questi obiettivi sono dei paradossi...si parla tanto di autonomia ma come è possibile essere autonomi a diciott’anni…? Si può parlare piuttosto di accompagnamento a un senso di responsabilità, ad acquisire coscienza di un percorso di vita e rafforzamento del sé.

Si lavora inoltre, in altri casi, per il ritorno in famiglia e per il recupero delle capacità genitoriali. Un altro paradosso, perché nel momento in cui l’adolescente dovrebbe distaccarsi dalle figure genitoriali e dall’adulto in generale, noi, forziamo la mano e cerchiamo di favorire e di rafforzare il legame parentale.

Di conseguenza succede, generalmente, che noi educatori diventiamo il bersaglio prediletto delle ire adolescenziali, gli adulti dai quali allontanarsi, separarsi, scontrarsi.

 

Maschere, specchi e la bellezza del cambiamento

Che strumenti abbiamo? La relazione educativa nel lavoro quotidiano, l’equipe, il gruppo come sostegno.

La relazione deve tener conto del passato, del presente e del futuro e si declina nella concretezza degli atti quotidiani.

Abbiamo il privilegio di assistere, attraverso il fare quotidiano, alla trasformazione dell’adolescente.

Ogni volta ci provoca meraviglia assistere alle ragazze che crescono, che passano da bambine ad adulte, in quella fase dove le vediamo intente a giocarsi dei ruoli, ad imitare………

Si osservano mentre passano ore allo specchio, a cambiarsi migliaia di volte prima di uscire e poi il trucco, spesso eccessivo quasi volesse essere una maschera per poi diventare più equilibrato col passare del tempo, si provano i tacchi da capogiro, si scambiano i vestiti, per non parlare dei capelli, ricci, piastrati, corti, lunghi, la coda ,colorati di azzurro, di rosa, biondi, neri, cappelli finti… Riescono a passare interi pomeriggi intente a fare le prove, alla ricerca di un’identità, di potersi riconoscere e piacere.

Con meraviglia si assiste ai primi amori, alla scoperta del sesso, la loro prima volta, alle rabbie, all’odio contro i tradimenti delle amiche, alle delusioni… In cerca di un porto nel mondo, di un posto nel mondo, alla ricerca di una visibilità.

Le adolescenti sono belle, anche nel pieno delle loro mattane, dei loro disastri, delle loro negazioni, del loro  bianco o nero senza sfumature, mantengono la bellezza del non compiuto, del provvisorio, della non cura dei particolari, della fretta, dell’urgenza e delle piccole distanze vissute come anni luce e nel contempo l’intuizione di sfide potenti…sono capaci di dire: io sono così, non cambio, ti escludo dalla mia vita… per poi ritornare e voler parlare, interagire, confrontarsi, capire, fare insieme.

Le adolescenti rappresentano il non dato per scontato non perché siano rivoluzionarie ma perché non sono riconducibili al noto.

 

Il dolore vestito di silenzio e abitato dal pianto trattenuto

Nel lavoro quotidiano, nella relazione, nel fare con queste ragazze, ogni giorno è diverso dall’altro e davvero non c’è il pericolo di annoiarsi.

 Pur lavorando nella quotidianità niente si ripete, niente è  catalogabile.

Sotto la crosta delle sparate adolescenziali della superficialità di queste ragazze, del vittimismo, dell’autolesionismo, delle malattie, si nasconde il dolore.

Molto spesso questo dolore non ha diritto di parola e si maschera in agiti (mi ubriaco, mi taglio, faccio quello che voglio).

Riconoscere quel dolore, intravederlo, invitarlo ad uscire fuori per poi guardarlo e ascoltarlo con rispetto. Un percorso che restituisce dignità e favorisce il perdono.

 

Il momento magico della visita amichevole della notte

Le ragazze entrano in comunità con un grosso carico di sofferenza e così la comunità diventa un luogo simbolico in cui rifugiarsi, rinforzarsi, per poi ripartire.

Ogni ragazza che abbiamo conosciuto, rispettato e amato ha lasciato una traccia, e queste tracce, queste impronte diventano la storia della nostra comunità.

Nella relazione educativa è importante l’ascolto: chi ascolta deve in qualche modo mettersi in gioco, occorre fare silenzio esteriore ed interiore per accogliere le storie, le parole e restituirne un senso, lasciando da parte il giudizio, per capire la fragilità e nel contempo sottolineare le risorse e i desideri.

Ascoltare ed essere ascoltati diventa terapeutico all’interno di un discorso più ampio di percorso di crescita e responsabilizzazione.

Quante volte le ragazze litigano sulle regole che non capiscono che criticano ma queste regole diventano strumento di acquisizione di indipendenza.

Le ragazze, quando cala il sole, quando il giorno lascia il posto alla sera, nel chiarore lunare, cercano l’adulto, l’educatrice/ore, con una scusa o l’altra, chiedono di essere accolte ed è in questo momento magico, lunare, introspettivo, dove l’adulto, l’educatrice/ore deve essere presente nell’accogliere i racconti, le domande, i dubbi, i sogni e le speranze.

 

Le storie e i racconti curano (la figura educativa come narratore di sogni e di speranze)

La figura educativa diventa testimone del percorso e della narrazione, e ogni storia, nel momento in cui si racconta, produce un cambiamento e il cambiamento diventa l’eredità del futuro.

Quante storie abbiamo sentito e ognuna diversa dall’altra e tutte degne di essere accolte.

Nelle ragazze, l’insicurezza esistenziale, la poca solidità interiore, la labilità di identità, può essere anche ricondotta all’assenza di un solido legame con il passato. In questi casi diventa importante dare valore al ricordo, alla narrazione di sé, al riconoscersi ed essere riconoscibili.

Hanno bisogno di sentirsi sostenute per riuscire a riflettere su quanto accade , hanno bisogno di sentire che le loro idee e le loro emozioni hanno una dignità e vengono ascoltate, senza essere minimizzate o messe in ridicolo.

 

Dar voce alle emozioni mute (l’Io fragile allo specchio)

L’adulto garantisce la circolarità della comunicazione e cerca di favorire e di mettere in parola le emozioni mute. Si cerca di mediare tra mondo interno ed esterno ed essere testimoni ed inoltre di restituire, di mettere insieme ,di dare un senso, di creare una sequenza narrativa, di essere specchi che rimandano un’immagine positiva in  soccorso all’io fragile.

Un lavoro difficile ma molto affascinate ed intrigante. 

Le adolescenti mettono in crisi, scavano, scalfiscono… Quanti colleghi abbiamo visto gettare la spugna dire ‘’no non voglio lavorare con le femmine, troppo difficili, non fanno per me’’. Quanti educatori sono entrati in crisi.

Difficile mantenere la disponibilità a mettersi in gioco, a contenere le frustrazioni.

Le adolescenti fanno tante domande, sono curiose e indagano senza pausa per vedere se effettivamente sei lì, sei presente , sei con loro.

Lavorare con l’utenza femminile dunque significa essere disposti ad essere scalfiti, a mente aperta, e ad accettare di confrontarsi con il dolore, l’angoscia e altre emozioni che risuonano dentro di noi.

Significa esplorare e tollerare il contenimento e imparare a farlo, significa cambiare a nostra volta ed esserne riconoscenti, significa andare oltre e sviluppare empatia.

 Termino con una frase, che rimanda ad avere il coraggio di esplorare quell’universo femminile tanto complesso come intenso, incontrata nel libro, ’’ Donne che corrono con i lupi’’ (Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono con i lupi, Sperling & Kupfer, 2016):

“Se non vai nei boschi, nulla accadrà mai e la tua vita non avrà mai inizio”.

 

Giuliana Campestrini

                                                               

 

UVI ONLUS